Decidersi

Da "Conoscersi, decidersi, giocarsi!"

Card. Carlo Maria Martini, Ed. CVX

 

La conoscenza di sé non è sufficiente, anzi può diventare un ostacolo, un alibi, può assumere uno sviluppo per così dire canceroso.  Essa ha senso se ci apre a decisioni significative per l'esistenza. E' dunque nel decidersi che la persona si fa perso­na, che l'individuo diventa soggetto, che il ragaz­zo, il giovane diventa adulto.

Vogliamo allora indicare un sottotitolo per la nostra riflessione: Tipologie delle decisioni signi­ficative, patologie e rimedi per curarle.

Sono "significative" le decisioni che imprimo­no una certa direzione alla nostra vita, che ne co­struiscono la figura giorno dopo giorno.

 

Un'icona biblica di decisione significativa

 

Ci è utile trovare un'icona biblica capace di farei cogliere meglio la pregnanza del sottotitolo.  La Bibbia offre molti esempi di decisioni significati­ve. Tra i tanti, ne scelgo uno che è tratto dal Li­bro degli Atti degli Apostoli, al cap. 21.

Paolo sta salendo a Gerusalemme, dopo essere salpato da Mileto.  Terminata la navigazione appro­da a Tolemaide e vi si ferma un giorno: “Ripartiti, giungemmo a Cesarea; ed entrati nella casa dell'evangelista Filippo, che era uno dei Sette (diaco­ni), sostammo presso di lui.  Le sue quattro figlie nubili avevano il dono della profezia.  Eravamo qui da alcuni giorni, quando giunse dalla Giudea un profeta di nome Agabo.  Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e dis­se: "Questo dice lo Spirito santo: l'uomo a cui ap­partiene questa cintura sarà legato così dai Giu­dei a Gerusalemme e verrà quindi consegnato nelle mani dei pagani".  All'udire queste cose, noi e quelli del luooro pregammo Paolo di non andare più a Gerusalemme.  Ma Paolo rispose: "Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? io sono pronto non soltanto a essere legato, ma a mo­rire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù".  E poiché non si lasciava persuadere, smettem­mo di insistere dicendo: "Sia fatta la volontà del Signore!"” (At 21,8-14).

E' sul tavolo una decisione: andare o meno a Ge­rusalemme, e i motivi per non andare sono molti.  C'è infatti una situazione di pericolo, che l'Apo­stolo conosce bene e che ha già messo a fuoco a Mileto, nel suo discorso agli anziani di Efeso: “Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei” (At 20,9).

Paolo sa per certo che a Gerusalemme incontre­rà insidie maggiori di quelle sperimentate, prece­dentemente, un po' ovunque.  D'altra parte, la sua coscienza delle difficoltà e dei pericoli è espressa bene pure nella seconda Lettera ai Corinti: “Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di brigan­ti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pe­ricoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli ... ”(2 Cor 11,26).  Egli intuisce quanto potranno fargli i suoi connazionali e i falsi fratelli che saranno pre­senti, in gran numero, a Gerusalemme.  Ancor pri­ma di giungere a Cesarea, i discepoli di Tiro, mossi dallo Spirito, l'avevano caldamente esortato a de­sistere (cf At 21,4).

Paolo ci offre quindi uno splendido esempio di decisione significativa che emerge da un contesto difficile ed è addirittura contrastata da persone carismatiche (la profezia di Agabo, i discepoli di Tiro che, "mossi dallo Spirito", lo implorano di non partire); una decisione attraversata da diver­si segnali, di tipo spirituale, che lo fanno entrare in un certo senso nella notte dello spirito.  Una de­cisione carica di conseguenze che segneranno tutta la sua vita, e che prende con piena coscienza, sen­tendosi probabilmente solo rispetto ai suoi colla­boratori che non sono affatto d'accordo.

Nella nostra riflessione sul "conoscersi", richia­mando le immagini bibliche del nostro cammino, avevamo citato la parola dell'apostolo Tommaso: “Andiamo anche noi a morire con lui” (Gv 11,16); dopo lo stupore per la decisione presa da Gesù, dopo aver considerato i rischi della sequela e aver lottato contro la fatica di assumerli, i Dodici de­cidono di andare dietro al Maestro.

 Tutta la Bibbia è costellata di decisioni signifi­cative, anche vocazionali.  Noi terremo presente in particolare l'icona di Paolo, ma nella vostra me­ditazione personale, potrete richiamarne alla men­te molte altre.

R. Bultmann, che interpreta il vangelo di Giovanni con la categoria fondamentale della decisione esistenziale, scrive che non è il mon­do a determinare l'appartenenza di un uomo al re­gno delle tenebre o a quello della luce; è la sua de­cisione.  E aggiunge: “Il dualismo fatalistico della gnosi è diventato, in Giovanni, dualismo di deci­sione e la fede non è altro che la decisione per Dio contro il mondo”, resa possibile dal fatto che Dio incontra l'uomo rivelandosi in Gesù.  Una decisio­ne donata da Dio: "non voi avete scelto me, ma io voi"; tuttavia, questa scelta che Dio ha fatto di me è resa operante nella decisione di fede del disce­polo (cf R. BULTMANN, Teologia del Nuovo Testa­mento, Queriniana, Brescia 1985, 407).

Chi lo desiderasse, potrebbe dunque contempla­re il messaggio dell'evangelista Giovanni sotto la cifra della decisione esistenziale.

Sarebbe pure interessante che ciascuno di noi, riflettendo sulla propria esperienza, individuasse un'icona personale, un momento della vita in cui ha preso una decisione significativa in circostan­ze particolarmente difficili. lo ricordo molto be­ne, per esempio, quando all'età di 18 anni ho fatto per la prima volta il Mese ignaziano di Esercizi spirituali.  Arrivato alla meditazione che propone l'offerta di sé a Cristo re e Signore (cf IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi Spirituali, n. 98), mi sentii con­fuso perché a ogni ragione in favore di quell'of­ferta di seguire Gesù nella via della povertà e del­l'umiltà evangelica, si opponeva una ragione contraria e, più meditavo, più mi smarrivo.  A un trat­to, ebbi improvvisamente l'intuizione che dovevo assolutamente decidermi, che non potevo salvarmi se non attraverso una decisione di cui coglievo le radici nell'amore del Signore per me e nella sua esigenza di totalità.  Ne seguì una gran pace, anche se la decisione non era stata accompagnata dal conforto logico e razionale che avrei desi­derato, anzi veniva controbilanciata da continue immaginazioni, fantasie e sofismi di ogni tipo.

 

Aiutati dunque dall'esempio di Paolo e di altri personaggi biblici, passiamo a considerare alcu­ne tipologie della decisione per coglierne gli elementi comuni.  Successivamente mi fermerò sul­la patologia delle decisioni, cioè sulle difficoltà che si frappongono e sul modo di curarle.

 

Tipologie delle decisioni

 

Lasciando da parte il caso dell'opzione fonda­mentale - quella per la fede - che è indubbiamen­te il più importante, ma il più difficile da trattare sistematicamente, vorrei indicare quattro tipi di decisioni:

-     abituali e moderatamente facili;

-     abituali e che però richiedono un certo sforzo, uno slancio maggiore;

-     decisioni che implicano un cambio di orizzonte;

-     infine, quelle che ipotecano definitivamente il futuro.

Si tratta di tipologie puramente descrittive, utili a stimolare la vostra riflessione e quindi il dialogo.

1. Le decisioni abituali e moderatamente facili ritmano l'intera esistenza: andare a tavola quan­do è l'ora, pregare nei tempi stabiliti.  Qui non viene messa in questione l'azione da compiere, perché è già parte di una precedente scelta.

2. Le decisioni abituali possono richiedere, per svariati motivi, uno sforzo maggiore.  Per esempio, ci vuole un certo slancio nell'alzarsi al mattino quando si è molto stanchi; come pure nell'andare a scuola o al lavoro quando non se ne ha voglia o si è preoccupati per qualche grave problema.

Ed è proprio l'azione a essere chiamata in cau­sa, in quanto ci si chiede: perché qui e adesso? per­ché non più tardi?

Sono molte le decisioni di questo tipo nella vi­ta: siamo stanchi e affaticati dal peso della gior­nata e ci troviamo di fronte a un'ennesima richiesta; dobbiamo rispondervi, ma perché non riman­dare a un altro momento? non sarebbe meglio ad­dirittura rifiutarsi inventando delle scuse?  Per non rimandare o per non rifiutarci, abbiamo bisogno di compiere uno sforzo, di avere uno slancio maggiore.

3. Ci sono poi le decisioni che implicano un cambio di orizzonte, con conseguenze per il pro­prio futuro, almeno a breve o a medio termine: scegliere il servizio civile anziché quello militare; ac­cettare, se si è preti, un ministero che il Vescovo propone ma senza richiederlo strettamente.  Si tratta di decisioni che esigono, oltre lo sforzo, una riflessione più attenta, in quanto non basta seguire l'abitudine.  Un altro esempio: un giovane incon­tra un gruppo di coetanei che stanno sempre in­sieme, si divertono, vanno in discoteca; inizialmen­te sembra non gli chiedano nulla di male, e tutta­via capisce che, una volta entrato nel giro, non potrà uscirne e deve dunque decidere con un atto im­pegnativo, carico di conseguenze per la sua vita.

4. Le decisioni che ipotecano il futuro in manie­ra definitiva riguardano la scelta del matrimonio, della vita consacrata, della vita sacerdotale, di un tipo di servizio che, concretamente, porrà la persona in una situazione nuova coinvolgendola per tempi lunghi.  Oppure, si tratta, al contrario, del­la decisione di divorziare, di rompere i legami con la vita di consacrazione.

 

Elementi comuni alle diverse tipologie

 

Volendo cercare gli elementi comuni ai quattro tipi di decisioni appena ricordati, ci accorgiamo che il primo elemento è costituito dal fatto che esse, comprese le più semplici, sono anzitutto atti di volontà.

Il secondo elemento è che questi atti di volontà sono radicati nell'emotività del soggetto; coinvol­geranno per uno o per cinque o per dieci, comunque la mozione dei sentimenti, degli affetti, è sem­pre presente.

li terzo elemento comune è lo sforzo che gli atti di volontà comportano: da sforzo zero (quando va­do a mangiare avendo fame) a sforzo enorme.  Può costarmi moltissimo decidere di sottopormi a un intervento chirurgico su cui non concordano nem­meno gli specialisti.

Il quarto elemento è pure interessante: in que­sti atti conta prima la ragionevolezza della deci­sione e dopo la difficoltà.  Un'azione è migliore, è preferibile, è da scegliere non perché più comoda e più facile (nemmeno perché è più ardua), bensì perché è più conforme alla ragione, alla fede, quin­di è bella, utile, moralmente comandata.  La ragio­nevolezza, illuminata dalla fede, mi si presenta attraverso il magma incerto del piacere/dispiacere, dell'inclinazione/ripugnanza, dello sforzo/facilità, per indicarmi la direzione.

Il quinto elemento comune: a misura che si pas­sa dal primo caso al secondo, dal secondo al ter­zo e dal terzo al quarto, occorre essere pronti a combattere e a lottare per la decisione ragionevole.

 

Patologie di una decisione ragionevole e illuminata

 

Quali sono le patologia di un decidersi autentico? Sono molte, in verità, ma per semplicità le ri­duco a quattro categorie che ritengo fondamentali.

1. L'opposizione altrui (pensiamo agli amici e ai collaboratori di san Paolo, che insistentemente gli chiedono di non andare a Gerusalemme).  Tale opposizione può essere reale o temuta: che cosa di­ranno gli altri?  Solitamente, il timore dei giudizi o di farsi dei nemici, di crearsi delle noie, è un grosso ostacolo alla decisione.

2. Un'altra patologia si riferisce ai danni che pa­vento per me, reali o immaginari: che cosa mi ac­cadrà se scelgo un nuovo lavoro che mi viene of­ferto? e che cosa succederà se vi rinuncio?

3. Distinguo dalla precedente la patologia del­le fantasie delle opposizioni e dei danni, che pos­sono molto oscillare il campo decisionale muovendolo in una direzione o nell'altra.  Proprio perché in ogni decisione è posta in gioco l'emotività, fa­cilmente le fantasie si scatenano fino a confonder­ci; è quanto è accaduto a me, durante il Mese ignaziano di Esercizi spirituali, nel momento in cui do­vevo decidermi per offrirmi di seguire Gesù in po­vertà e umiltà.

4. Una patologia più sottile e più insidiosa, è quella della paura di aver paura, cioè il timore di entrare in uno stato conflittuale.  Questa patologia impedisce a molte persone di prendere deci­sioni significative perché, non volendo turbare alcuni equilibri raggiunti, preferiscono continuare nel loro tran-tran.  Conosco tanti giovani, e anche tanti adulti, che non giungono a decisioni mature per mancanza del coraggio di esaminarle, per pau­ra delle insorgenze negative esterne o interne.  E così, purtroppo, fanno delle scelte riguardanti la professione, la famiglia, la vita affettiva, sentimen­tale, senza avere la necessaria maturità.

 

La cura delle patologia

 

Infine, esprimo alcuni rimedi utili a curare, a vincere gli ostacoli che si frappongono alla de­cisione.

1.E' pedagogicamente fondamentale, per aiuta­re i ragazzi e i giovani, promuovere il coraggio e la prontezza nelle decisioni del secondo tipo, cioè in quelle abituali, ma che richiedono uno sforzo maggiore.  In tal modo l'individuo matura una cer­ta abitudine a guardare in faccia gli ostacoli frap­posti dalla fantasia o dalla paura.

2. Per prendere decisioni del terzo e del quar­to tipo, è necessario entrare nel mondo delle scel­te divine mediante l'esercizio della "lectio divina".  Perché la lectio divina mette a contatto con le gran­di decisioni di Dio, le decisioni che il Signore fa compiere al suo popolo, la decisione di Gesù con­tinuamente rinnovata nell'Eucaristia, e a poco a poco esse diventano il nostro mondo.

3. Ancora per le decisioni del terzo e del quarto tipo, bisogna imparare, con l'aiuto del diretto­re spiritual e, a discernere le mozioni interiori: fan­tasie, paure, immaginazioni, inclinazioni, attrazio­ni. Imparare a discernerle in noi per potere, a nostra volta essere di aiuto ad altri.

4. Le decisioni di secondo tipo sono sempre il nostro cavallo di battaglia e, per vincere gli ostacoli in proposito, è bene abituarsi a vivere la co­munione del santi.  Esemplifico: sapere che la co­munità mi aspetta per la celebrazione della Messa a una determinata ora, mi sollecita a superare la pigrizia e la fatica dell'alzata mattutina, la vo­glia di dormire un po' di più.  Il fatto di dover ri­spondere di me e di avere delle responsabilità ver­so gli altri, è molto stimolante.  Non a caso la vita eremitica è estremamente difficile.

La comunione dei santi, l'esempio di persone più brave, più fedeli, più generose di noi, la consape­volezza che altri attendono da noi determinati ser­vizi, ci conforta, ci incoraggia, ci sostiene, maga­ri anche ci premia o ci rimprovera; tutto questo meccanismo è ricco di profonda vitalità.

Allora le buone abitudini prese diventano importanti, perché esprimono il nostro modo di inserirci in una comunità.

5. Un altro rimedio, per curare le patologie è di resistere dove la confusione vorrebbe impadronir­si di noi.  Torneremo su questo tipo di "cura", che è estremamente valido per evitare l' inautenticità di decisioni gravi.  Resistere tenendo presente che, nel momento della confusione, non dobbiamo per alcun motivo mutare quanto abbiamo deciso nel momento della serenità.

6. Infine, occorre talora compiere qualche atto coraggioso a cui ci sentiamo spinti, per cui ve­niamo debitamente consigliati, ma per il quale pro­viamo ancora paura e disagio.  E' la cura del tuffo.  Non si tratta qui di confusione, bensì di indecisione: si sa che cosa si deve fare, però sembra esser­ci un motivo per aspettare.  Allora, opportunamen­te consigliati, ci si butta, si salta. t un decidersi nel suo momento esistenziale e ha come conse­guenza uno stato di grande pace.

 

Domande per la riflessione personale

 

Per concludere, vi propongo delle semplici do­mande che riprenderemo nel dialogo comunitario:

·        mi trovo spesso di fronte a decisioni del secon­do tipo? perché? forse per stanchezza fisica, ner­vosa, per abbattimento? e come reagisco?

·        Ho vissuto casi di decisioni del terzo tipo? e so­no riuscito o riesco a promuovere in tali casi la ragionevolezza della scelta superando le ombre dell'ansietà e i blocchi delle paure?

·        Percepisco il rapporto tra lectio divina e scelte significative? oppure lo recepisco soltanto come                              

un mandato dall'esterno, pur se lo rispetto? ho qualche difficoltà a recepirlo, qualche problema al riguardo?  R utilissimo chiarirsi a poco a poco il rapporto tra lectio divina e- decisioni significative.

·        Quale facilità o difficoltà trovo nel discernimento delle mozioni contrarie alle scelte ragionevoli?  Mozioni contrarie sono, per esempio, la paura, l'antipatia, le ripugnanze, gli incubi, oppure le in­fatuazioni, le esaltazioni, gli entusiasmi superficiali, gli innamoramenti rapidi.  Provo facilità nel discernere le mozioni contrarie alle scelte ragio­nevoli?

·        Come mi aiuta la comunione dei santi nel sen­so che abbiamo espresso (la regola, l'abitudine, l'e­sempio degli altri, le loro attese su di me)? mi aiuta in maniera autentica o soltanto superficiale? ne colgo almeno il valore?

·        Vi sono altre patologie del decidersi che vorrei fossero discusse?

 

DIALOGO

 

Nel riflettere sui temi di cui ci stiamo occupando, mi sembra possibile correre il rischio di parlare in termini umani, razionali, aggiungendo poi, come giustapposto e quasi "dovuto" il discorso teo­logico, il discorso su Gesù.

Come evitare tale rischio?

 

A mio avviso non esiste un modo di procedere obbligato.  Si può, infatti, partire da una notizia del giornale per andare alla Bibbia e viceversa; si può partire da un'analisi psicologica e poi cercare in quale modo essa si allarghi, oppure dalla pro­spettiva di fede e vedere come si verifica nel concreto.

Credo ci sia una sola regola a priori, per capire quale debba essere il procedimento migliore: sfor­zarsi di essere contemplativi nel nostro agire, di cogliere in ogni realtà e in ogni avvenimento il mistero di Dio, così da parlare di tutte le espressio­ni più umane e razionali della persona leggendole in questa visuale; o di parlare del mistero di Dio contemplandolo già inserito nella persona.

Si tratta di una sintesi che compiamo a poco a poco, e non si può dimostrare, soltanto con un'a­nalisi puramente razionale, che la sintesi sia riu­scita o meno.  Penso, per esempio, alla differenza che troviamo nell'enciclica papale Centesimus annus tra l'ultimo capitolo - dove è presentata una visuale teologica - e i capitoli precedenti che co­stituiscono un'analisi storica.  Leggendo il docu­mento posso dire: i sociologi hanno collaborato al­la prima parte, offrendo delle indicazioni sulla società di mercato, e alla fine è stata aggiunta una visione di fede profonda, che permette di valuta­re gli eventi del 1989 in una certa ottica, coglien­done il significato globale nel piano divino di sal­vezza.  Ma in realtà è un'attitudine di fede quella con cui devo leggere l'enciclica, perché è certamen­te quella nella quale è stata scritta e che mi aiuta a contemplare il mistero di Dio.  Se invece mi at­tardo a distinguere, secondo la logica, tutti i pas­saggi, non riuscirò a cogliere il carattere unitario del documento.

Al di là dunque del diverso modo espressivo, noi siamo chiamati anzitutto a fare unità dentro di noi, per poter dare l'interpretazione giusta e correggere le eventuali riflessioni unilaterali.  Nulla ci ga­rantisce dallo sbilanciarsi da una parte o dall'al­tra se non il ritornare a una visuale contemplati­va, che non è puramente teologica.

Confesso che, per un certo tempo, ho pensato fosse possibile giungere a una visuale teologica co­sì organica e così completa da delineare e verbalizzare con assoluta chiarezza gli elementi umano­-divini.  Ora però sono convinto che solo il cuore, cioè la visuale interiore, permette di recuperare sempre e comunque la globalità, anche quando il linguaggio teologico, necessariamente analitico, distingue tempi, aspetti, attenzioni.  Se non vivo la dimensione contemplativa, continuerò a trovare la giustapposizione.

Mi sembra importante tale affermazione, in quanto ci permette di avere il retto quadro di lettura e insieme di recuperare nella loro integrità pezzi apparentemente distaccati dell'unico messaggio cristiano.

Ci sono, è vero, modi più o meno perfetti di arrivare a questa sintesi.  Teresa d'Avila, per esem­pio, ha una capacità straordinaria di sintesi tra lo psicologico e Il soprannaturale, ma dobbiamo tener conto che i suoi scritti sono il racconto di un'esperienza.  Quando però si entra maggiormen­te nell'esposizione teoretica, come fa Giovanni del­la Croce, si possono distinguere i filosofumeni, i concetti tratti dalla dottrina aristotelico-tomistica e le esperienze propriamente mistiche.

Volendo dedicarci al lavoro della mente, dobbia­mo accettare che ci siano delle analisi con accen­tuazioni differenziate, e non sempre potremo pre­tendere una sintesi globale, se non l'abbiamo in noi stessi e se non la recuperiamo continuamen­te. E' tuttavia molto affascinante questo tema del rapporto tra visione globale contemplativa e sin­goli aspetti dell'esperienza umana e della sua de­scrizione.

Potete avere qualche indicazione particolarmente illuminante, riferendovi ai testi di Bernard Lo­nergan.  Per esempio, nel suo libro "Il metodo in teologia" - dove distingue nella teologia otto spe­cializzazioni funzionari - cerca di cogliere il signi­ficato di un'analisi (che può fare anche un non cre­dente) del testo, della storia, dell'interpretazione, di tutti gli aspetti materiali-storici, analisi che li consideri però in unità con l'aspetto più propria                                                        

mente teologico, soprannaturale.  Non è affatto fa­cile giungere a tale unità.  Ci sono, di fatto, degli ottimi specialisti di scienze neotestamentarie, ma­gari non credenti, che compiono un buonissimo lavoro settoriale, e nient'altro; il credente, inve­ce, pur facendo lo stesso lavoro, lo realizza attra­verso una visione unitaria di fede.

Concludendo, vi invito a curare molto l'unità in­teriore della vostra vita e della vostra azione, per­ché la realtà è necessariamente analitica e fram­mentata.  Non è importante capire con chiarezza il collegamento tra impegni di tipo materiale, ma­nageriale, amministrativo e servizi di tipo spiri­tuale o teologico; l'importante è custodire in noi quel tisegreto interiore" che ci guiderà a far sì che le nostre scelte - pur se sono le stesse di un non credente - abbiano una determinata collocazione.

 

Mi ha colpito sentire che nella decisione conta la ragionevolezza della decisione stessa più che le difficoltà a essa collegate. Può approfondire questo concetto?

 

Con il termine ragionevolezza intendo quello che la filosofia classica chiama il bonum, cioè lo sco­po per cui agisco.  Se prendo una decisione, è sem­pre in vista di un bene, un bene reale, non apparente; beni apparenti, la ricerca dei quali può indurre a decidere, sono per esempio le comodità, il quieto vivere per paura o pigrizia, l'ottenere il favore degli altri.

Per la rettitudine della volontà è anzitutto necessario collocare nel suo primato la ratio boni e allora tutte le altre prospettive vengono considerate come ausiliarie o addirittura contrarie o al­ternative.

Non è forse vero che l'educazione morale del bambino e del fanciullo tende a fargli cogliere co­me esista una ragione del bene che non è riduci­bile ad alcuna ragione di vantaggio, di utilità, di successo, di piacere o di dispiacere?  Si gioca qui l'autenticità della coscienza morale.  E la conver­sione morale si ha quando l'uomo comprende che ciò che conta è irriducibile alle sensazioni, emo­zioni, possibilità inferiori rispetto a quell'assolu­to indiscutibile intuito che è la ragione del bene.  Lo sforzo dei genitori consiste nel far passare i fi­gli dal desiderio del premio, pur piccolo, o dalla paura del rimprovero alla ragione di bene.  Tale passaggio avviene tra i sette e i quattordici anni, tuttavia comporta un cammino lungo, una fatica che accompagna tutta l'esistenza.

Dunque, ho chiamato ragionevolezza la ragione che, illuminata dalla fede, capisce ciò che è buo­no e che va fatto per se stesso, in quanto è il riflesso del volto di Dio nella realtà umana.  Perciò san Tommaso afferma che in ogni atto buono, l'uo­mo tende a Dio, lo cerca e, in qualche modo, lo te­stimonia.

 

Può approfondire la quarta tipologia della deci­sione?  In particolare vorrei sapere, pensando con­cretamente a una scelta vocazionale, quanto inci­de o dovrebbe incidere l'atto di volontà, quindi l'au­tocandidatura del soggetto, e quanto invece la chia­mata del Signore, che è la componente più trascen­dente della persona.  Com'è possibile riconoscere il dosaggio delle due componenti?

 

Di proposito ho soltanto accennato al quarto ti­po di decisione perché, a mio giudizio, si gioca nel­le tipologie precedenti.  Se a un certo punto della vita si tematizza, non è però possibile che questo avvenga attraverso uno 'sconto' sulle prime tre tipologie.  Il peso di una decisione, infatti, non si gio­ca soltanto su alcuni atti specifici, bensì su un orientamento al bene, al mistero di Dio, e su una docilità allo Spirito che derivano dall'insieme delle decisioni precedenti.  La domanda tende tuttavia giustamente a cogliere il problema nella sua spe­cificità; in proposito va tenuto presente il tema del­la libertà e della grazia.  Il dono della grazia crea e suscita la libertà, ed è questo il punto di riferimento fondamentale.  Parlare della grazia o par­lare della libertà è la stessa cosa, se abbiamo la visione d'insieme.  Posso insistere di più sulla de­cisione, ma parlo sempre della grazia; posso par­lare della grazia, ma in quanto suscitatrice di li­bertà. E' quindi la causalità fondamentale della li­bertà graziata o della grazia liberante che viene messa in questione.

Una volta posto questo fondamento metafisico, la parte più o meno appariscente degli atti viene distribuita a seconda dei diversi soggetti e del diversi ambiti di decisione.  Così, nella decisione ma­trimoniale, occorrono le decisioni di due soggetti che, in una visione di fede, si fondono in un unico atto. E' richiesta certamente una chiamata fondamentale, però si esprime soprattutto a livello di decisioni esistenziali, perché non si può parlare di chiamata nello stesso senso con cui si parla di vocazione al sacerdozio o alla vita consacrata.  E, tra l'altro, bisogna ancora distinguere tra le ulti­me due chiamate; mentre in quella alla vita di to­tale consacrazione è preponderante la serie degli atti soggettivi con cui si arriva alla scelta, nella chiamata al sacerdozio ha un ruolo molto impor­tante, pur in presenza degli atti soggettivi, la Chie­sa locale, il Vescovo.

Quale peso dare allora all'autocandidatura?  Di­pende dalla chiamata.  Concretamente la Chiesa, nel matrimonio, constata l'autocandidatura del­le due persone; nell'ordinazione sacerdotale e, an­cor più, nell'ordinazione episcopale, la Chiesa non può limitarsi a questo.

In ogni caso è molto importante riconoscere quella sinergia divino-umana, che ci permette di affidarci totalmente all'azione della grazia e insie­me di sentirci totalmente responsabili dell'azione posta.

Tale dilemma, che a livello teoretico ha fatto di­scutere per secoli i teologi, a livello pratico assu­me accentuazioni diverse e, magari, successive.  Nella mia esperienza personale o in quella di al­tri, sottolineerò, secondo l'intuizione del momento, più l'aspetto della scelta personale, della re­sponsabìlità, del doversi decidere, o più l'aspetto dell'affidamento, dell'abbandono, dell'accoglien­za dello Spirito santo.

 

Mi sembra davvero utilissima la regolai di non prendere decisioni nel momento di desolazione, ma di fare riferimento a quanto si è deciso in un mo­mento di grazia, di consolazione. Può tornare sull'argomento?

La regola è semplicissima, ma mi accorgo che, di fatto, è spesso calpestata proprio perché la con­fusione mentale impedisce, blocca, opprime, confonde, travolge.  Bisogna allora, con l'aiuto di DI02 sforzarsi di andare al di là di sé, di compiere un atto di metalinguaggio chiedendosi: per quale mo­tivo sto vivendo questa esperienza? che senso ha nella mia vita?

Con tale domanda sono già fuori, per così dire, dalla desolazione, e comincio a intuire che quel­l'esperienza ha il senso di provarmi, di purificar­mi, di indicarmi che non devo prendere nessuna decisione.

La capacità di autotrascendersi è davvero la sal­vezza nei momenti confusi e difficili, ma di solito il Signore ci permette di esercitarla pure in situa­zioni più semplici.  Quando, per esempio, ci irri­tiamo o ci logoriamo per un problema, ci infuo­chiamo per una discussione, e tuttavia riuscia­mo a dire a noi stessi: perché me la sto prenden­do tanto? che valore ha? ma(yari ha valore, ma fi­no a un certo punto.  Allora vedo i limiti di ciò che sto vivendo.

 

Può chiarire il rapporto tra "lectio divina" e scelte significative?

 

Prima di rispondere alla domanda, credo sia utile una breve approfondimento sulla lecilo stessa e su alcuni metodi per esercitarla.

   La mia preoccupazione è stata di capire in qua­le modo fosse possibile mettere in pratica il capitolo VI della Dei Verbum, che chiede a tutti i cri­stiani di arrivare a una conoscenza più profonda di Gesù Cristo attraverso la lettura orante delle divine Scritture.  R un ideale pastorale straordi­nario, da cui siamo ancora lontani, ma ho cerca­to di dare delle regole minime semplicissime, ab­bastanza ovvie, perché la gente cominciasse a com­piere qualche passo e a gustare la lectio divina.  Non si gusta la Bibbia solo sfarfalleggiando qua e là o leggendo un libro di spiegazioni: la si gusta affrontandola coraggiosamente, direttamente e ar­rivando a comprendere come in essa il Signore mi parla e mi nutre.  Allora il cammino verso la fami­liarità con il mondo di Dio, avrà determinate re­gole, ma sempre più libere; i metodi hanno un lo­ro valido significato, però non devono mai ob­bligare.

La spiritualità rabbinica, per esempio, sa trarre un nutrimento formidabile dalle parole e gli ese­geti, in fondo, ricalcano un poco questa linea, cer­cando di spremere il più possibile la parola.  Così, il contatto con la carne del Signore, viene media­to dalla parola, dalla ricerca dei suoi sinonimi, dal ricorso a parole affini presenti in altre pagine della Scrittura.  Ricordo l'impressione che suscitò in me un rabbino.  Partecipavo a un seminario sui rotoli del Mar Morto, all'Università di Munster, e leggevamo insieme, in ebraico, la Regola della comu­nità; il rabbino, per ogni parola, trovava immedia­tamente, a memoria, le referenze.  Il suo essere nel­la carne del Testo Sacro (per noi, nella carne del Signore) era mediato da quella conoscenza mnemonica straordinaria, per cui ogni parola acqui­stava rilievo confrontandola con un'altra.

Noi ci sentiamo dispensati da un tale lavoro, per­ché abbiamo le concordanze, ma la luce che ci vie­ne dal trovare noi il contesto in cui ricorre la pa­rola uguale a quella che stiamo leggendo, è pre­ziosissima.

Altre persone, invece, usano, nell'accostamen­to alla Bibbia, la fantasia, l'immaginazione (è la cosiddetta composizione di luogo).

Per quanto riguarda la riflessione di S. Ignazio di Loyola sulla applicazione dei sensi (cf Esercizi Spirituali nn. 121-125), ho scoperto che davvero può farci assaporare il mistero di Dio, che possia­mo essere nutriti dalla Parola attraverso l'espe­rienza del respiro spirituale, del gusto interiore di Dio.

Ma la lectio divina, dicevo sopra, è un cammino mai compiuto, e vorrei accennare alla tappa cui si può giungere dopo averne praticato fedelmen­te e per lungo tempo l'esercizio.  Il testo comincia a dire molto meno, non lo si gusta più e si entra nell'oscurità, nell'aridità, nella desolazione, nel­l'incapacità a esprimere pensieri buoni. E' questo il momento importante del passaggio a una lectio più approfondita, che si nutre ormai della carne di Cristo.  Giovanni della Croce e Teresa d'Avila de­scrivono molto tali esperienze mediante le imma­gini della notte oscura del sensi, della notte dello spirito, della sorgente che, zampillando di notte, non può essere vista.  Siamo sempre nella strada della lectio, ma le regole sono venute meno per da­re posto al gusto misterioso, non percepito dai sen­si, di Dio.

   Ora ci chiediamo: quale relazione esiste dunque tra la lectio divina e le decisioni?

La risposta è facile: una relazione molteplice co­me molteplice è la lectio.

All'inizio è fondamentale insegnare ai princi­pianti l'opportunità di terminare la lettura oran­te di un brano prendendo qualche deliberazione concreta.  In tal modo il principiante capisce che lo scopo di meditare sul Vangelo o su una pagina dell'Antico Testamento è il cambiamento della vi­ta, il compiere gesti reali.

A mano a mano che si procede nel cammino, pe­rò, il frutto sarà un atteggiamento evangelico che informa tutta l'esistenza, e qui vediamo la relazio­ne tra lectio divina e decisioni significative.  Nella misura in cui ci affezioniamo al modo di vivere di Cristo, alla sua scelta di povertà, di umiltà, di ob­bedienza, di primato del Regno, le nostre scelte non potranno che essere consequenziali.

La scelta, quindi, non deriva tanto dalla lectio, quasi come deduzione; dalla lectio deriva quella "sublime conoscenza di Gesù" che è conoscenza del suo modo di essere Dio-uomo.  Perché l'Incar­nazione avviene mediante modalità storiche che vanno assimilate per conoscere davvero questo Ge­sù che così ha predicato, così ha vissuto, così ha agito, così è morto.

* Un'ultima osservazione sulla Parola di Dio in quanto dono.  Mentre all'inizio della lectio predomina l'azione propria, e la Parola su cui mi eser­cito, i fatti di cui mi parla sono il dono per me, a un dato punto del cammino percepisco che non essi, bensì Dio stesso che mi si comunica è il vero dono.  Un dono che afferra la mia esistenza e che mi determina sempre più come qualcosa che vie­ne dall'alto.  Recepisco esistenzialmente che il Signore mi nutre e sperimento ciò che il popolo ha vissuto nel momento della distribuzione dei pani.

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